AL RIPARO

Un’opera d’arte viene letta all’interno della sua cornice. Quali che siano le sue dimensioni, non vive che in se stessa e per se stessa. Al di fuori di questo “in-sé” il mondo esiste come sembianza. In ogni caso, non è messo in discussione, ma sottratto evidentemente all’atto della discussione. Non gli resta che accettare l’arte come spettacolo e servirsene come alibi per continuare senza timori eccessivi il proprio viaggio verso l’apocalisse. L’opera d’arte ha talmente paura del mondo, talmente bisogno d’isolamento per esistere, che tutti i mezzi di protezione possibili le vanno bene. Si incornicia, si mette sotto vetro, si barrica dietro pareti para-palle, si circonda di cordoni sanitari, di segnali indicanti l’umidità ambientale, cosicché il minimo raffreddore le sarebbe fatale. Al limite l’opera d’arte si ritrova non solo sottratta al mondo, ma anche inscatolata dentro un cofano, al riparo totale e definitivo di ogni sguardo. Ma quest’estremismo che raggiunge l’assurdo non esiste forse già, ogni giorno, dappertutto, quando l’opera si espone in quei cofani chiamati “Gallerie”, “Musei”? Non è lo scopo, lo stesso fine e funzione essenziale dell’opera d’arte quello di essere presentata in questo modo? Non è per definizione così fragile da necessitare implicitamente di infinite precauzioni, da essere protetta dal tatto, dall’umidità, dal vento, dalla pioggia, dalla notte, dal sole... dagli sguardi? Un’opera è insomma fatta (e tutto ciò che deve esprimere deve trovarsi nel suo stesso centro) pronta-per-essere incorniciata, protetta, sorvegliata. Che cosa resta ai guardiani delle opere (direttori e sovrintendenti di musei, direttori di gallerie...) se non disporre le opere (o disporne?) tentando di rispettare il loro messaggio, la loro solitudine, isolandole le une dalle altre, affinché la loro lettura non sia perturbata da niente, neppure dallo stesso muro su cui si appendono o dalla sala dove si sviluppano, pur essendo beninteso che i luoghi d’esposizione non hanno, si dice, nessuna importanza riguardo alle opere che ospitano. Questo è cosi vero che si potrebbe cercare invano in tutte le storie dell’arte (soprattutto quelle che concernono l’arte dopo il Rinascimento) una storia dei luoghi dove queste opere potevano essere viste. La storia dell’arte è, evidentemente, la storia delle opere e basta, essendo il loro luogo ridotto bizzarramente al supporto (tela, legno...) su cui l’opera è dipinta o stampata o disegnata. E ancora, questo supporto non è menzionato che come superficie ricoperta e raramente, per non dire mai, come supporto materiale di una qualunque importanza.


SPAZI “ BIANCHI “

Dunque, oggi, il solo discorso sull’arte “valido” e “al potere”, è quello che consiste nel parlare delle opere “in sé”, tentando però di far credere con dei giochetti di parole e dei concetti pseudo-filosofici, che in effetti si parla del mondo. Questo spiega anche il lato ineffabile del mio lavoro di fronte alla critica di oggi, che si dica o meno materialista. Il lavoro che io propongo è là dove viene fatto, dove viene installato. Non si può né “metaforizzarlo” né generalizzarlo, né ancor meno servirsene da modello. Infatti non è il modello di niente, né il modello per qualcosa, né il modello di se stesso. È ugualmente difficile utilizzare il passato per stabilirlo. Non è vendibile sotto una forma che non sia quella sotto la quale si presenta. La storia della pittura che questo lavoro intraprende è la storia delle distanze reali che separano le opere sulle cimase dei musei. In effetti, nella lettura del testo pittorico che si è stabilita durante i secoli sui muri dei musei di tutto il mondo, gli innumerevoli spazi bianchi o non utilizzati, che vi sono disseminati, domandano di essere completati, anche a costo che la lettura, abituata da cosi tanto tempo a queste assenze, ne perda il senso. È in queste interlinee che in effetti si deve scrivere oggi la storia. Storia marginale che sta per diventare la sola possibile. Visto che il fondo dell’arte è il museo, esporre il museo è ancora fare dell’arte. Ma come mettere l’arte in questione prima di farne? Come fare qualcosa al di fuori dei terreni riservati? Come articolare visualmente, vale a dire teoricamente, un concetto di questo tipo? Come, per esempio, in uno spazio “museale” e a fortiori in uno spazio qualunque se non si tratta d’arte, far sapere che si tratta di “qualcosa”? Che accade “qualcosa”? Come definire allora questo “qualcosa” che si articola su e con l’arte e che non ne farà parte?


DISSIDENTE

Non si tratta dunque più di fare la critica delle opere d’arte e del loro significato estetico, filosofico o altro. Non si tratta più nemmeno di sapere come fare un’opera d’arte, un oggetto, una pittura, come inserirsi nella storia dell’arte, né di porsi la questione di sapere se è interessante o no, essenziale o ridicolo creare un’opera d’arte, come, se si è o si desidera essere un artista (o se non ci si riconosce in questo termine), inserirsi nel “gioco” per giocarlo con i suoi propri strumenti e nel migliore dei modi. Non si tratta nemmeno di contestare il sistema artistico, né meno ancora di inserirsi nella sua infinita analisi. L’ambizione di questo lavoro è tutt’altra. Non si volge in effetti a nient’altro che ad abolire il codice che fa l’arte tale quale è nella sua produzione e nelle sue istanze fino a oggi. Dopo aver decodificato, tende a stravolgere o perlomeno a non tener conto dei tabù dell’arte (storici, estetici, economici) né a subire le gerarchie che il potere “museale” ha instaurato lungo i secoli. Il lavoro in corso ha per ambizione non quella di inserirsi più o meno bene nel gioco né di contraddirlo, ma nientemeno che di abolirne le regole mentre si svolge e, dissidente, su un altro terreno o sullo stesso, di svolgersi in una direzione diversa che non stia al gioco.

Daniel Buren

Testo pubblicato nel numero 4-5 di “Tra” (marzo-maggio 1978)


  ←inizio pagina       Daniel Buren→